di Clara Morpurgo

Nel paese di Korouslandia il Principe Biblo de Corsegra era ansioso di crearsi un regno e di liberare la sua amata Principessa Teka, tenuta prigioniera nel Castello Vagante dal terribile Drago Polifemico. Il Castello, ricostruzione ampliata della Casa Parrocchiale della chiesa di Sant’Ambrogio, era imponente come un Hotel Ristz, col grande portale ad arco sostenuto da due Besenzoni in pietra, e l’alta torre cui si poteva accedere con un Ascenzo un po’ antiquato, della vecchia marca tedesca Rueger.

Il Drago aveva un occhio solo e decine di bocche che risucchiavano e vomitavano continuamente coristi assortiti, stonati e intonati, con contorno di spartiti musicali Frittoli. Ma Teka la teneva sempre sorvegliata, sola Solè, in una Camera nascosta, alla cui porta facevano la guardia Cinquanta Borsari neri. Questi erano sbarcati da una Nava salpata da Constantinescu, nel favoloso paese del re Salomone, tutti con un occhio bendato da una Tricella nera, e un po’ Scarpanti, per via della gamba di legno. Erano un po’ Balzani, alcuni anche Baccaglioni, ma in fondo, anche se armati di Seghizzi, Ferrucci, Mordenti, Mazza e Martelli Rotatori, erano abbastanza Belloni e Bonardi. Uno di essi, Moro, con Franzetti ben pettinati, giacca a Spina di pesce con Todaro rialzato, un po’ più Arturo, cioè meno Bassan degli altri, conosceva il nascondiglio delle chiavi che mettevano in moto le ruote del Castello Vagante, e segretamente aspirava a servirsene alla prima occasione per diventare più importante.

Il Principe Biblo li poteva vedere attraverso un paio di San Cristofori scolpiti in marmo, Locati sulla balaustra del terrazzo dalla parte Dell’Orto; e non gliene importava un’Acca dei loro Arietti di superiorità, anzi pensava che fossero solo dei Brocchetti, per di più un po’ Ceccarelli… Chissà come avrebbero potuto reagire ad un attacco.

Ma un bel giorno si decise: “ L’attacco si fa oggi!”, si disse. “Ma devo trovare dei validi aiuti”. Si diede da fare con Lena: fece chiamare ed inviò in ogni dove gli Araldi e i Messaggeri, e anche la sua guardia del corpo che gli obbediva come uno Schiavon.

E presto, su snelli cavalli Rossini, giunsero i prodi Cavaglieri, coi Capuzzi ornati di un bell’elmo Indorato, e i valorosi Bonfanti con gli scudi Fulghieri di acciaio che irradiavano di luce la Piazza, Panzetti in dentro e Mento in alto.

Arrighi!”, ordinò il Principe. Ed ecco che tutti iniziarono a Baldassarre ordinatamente come Scolari attorno alla Fontana, si allinearono lungo tre lati della grande Piazza e, sollevando il Brachio destro, rivolsero al Principe il saluto Romano.

Intanto erano arrivati gli scudieri, seguiti da una grande Carrera trainata da due Manzotti, tre Manzoni, e da una Vaccarossa: trasportava sacchi De Faveri, Di Gregorio, di Cecere, e uova di Quaglia e di Gallina, Mele rare senza Torsello, Travasoni di Bevilacqua e di birra Erpenbek, due pentoloni di Crippa alla parmigiana, e anche uno Zaghetto di Brambilla per curare i depressi e gli insonni, e alcuni Azzini di caffè in polvere, una scorta di Pelliciari per il brutto tempo (non si sa mai, Daccò fin là poteva venir freddo), un Cassis di Cappelletti e di spaghetti, di quelli Finazzi, lunghi, che tengon bene la cottura; e una Garcea di salse e sughi di ogni colore e sapore; e una Panina gigante farcita di Salmeri affumicati… Insomma, ogni genere di Consolazione: roba da far uscire dai Tangari anche i più intransigenti e moderati Andreoli del Paradiso.

Sul lato libero della piazza ecco il Principe: stava in piedi su un alto Calasso posto sul bordo del Canal punteggiato da candidi cigni Furlani e Filippini, e da variopinti Zanussi, Zanelli, Zappitelli e Rebecchi, e sorvolato da eleganti Liverani e neri Camurani e Molteni altri uccelli Marini.

Biblo, reggendo Cusumano sinistra la sua Virga di comando sullo sfondo del lontano Monterisi, rispose al saluto e parlò:

“O miei prodi, è ora che Sorghi il giorno del destino! Sono Finazzi i tempi di questa vita Moggia, Servida al capriccio di quel… Thomi…! Eravamo considerati come Folletti manovrati dai fili Del Puppo, Curti, Dierisi come Gatti inseguiti da un Luppo, o polli da Faini affamati…, o salmoni alle prese con un feroce Orsanigo… Andiamo a sfidarlo e prendiamo il Castello e la mia Teka!”

Un Turturro si sentì serpeggiare fra gli scudieri, malgrado le grida osannanti dei Cavaglieri entusiasti: “Ma …sarà…chi?! Chi sarà??”……

Masaraki?!” – ripetè Biblo. “Ma è il Drago Polifemico del Castello Vagante! Non Sollo Mariòt, ma io Moro dalla voglia di liberare e valorizzare i coristi prigionieri e vagabondi, e soprattutto di liberare e sposare la mia amata Teka! Con lei e col vostro sostegno regnerò in quel Castello, non più Vagante, e i miei sogni saranno Novati! Ma basta con queste Manfrin. Siete pronti?… Partiamo!”

Erano più di Cinquanta e marciarono lungo il Canal.
“Ecco il Castello!- gridarono.” Joksimòvic lentamente, e sentite che Miola fanno le sue ruote arrugginite!”

Quello dei Borsari che sappiamo era proprio in cima alla torre a fare la Roda; li vide, corse a cercare la chiave segreta e fermò il congegno. Il Drago si scosse battendo l’occhio: “Chi sono questi quattro Gatti Cioffi, che Piròvano a sfidarmi? Che Finazzi hanno fatto i meccanismi del Castello?! Ah, ora li Morpurgo io i traditori e gli invasori! A me, guardie!”…
Ma queste ormai si erano schierate con Biblo. E Biblo gli gridò:
“Quanto scommettiamo che il tuo potere ormai si Quaglia?”

“Neanche una Cucuzza, per voi Tangari Romanazzi! All’inferno sarete Locati! Tiezzi!!”, e sputò.

Ma Biblo replicò: “Inutile che Ciacci, ci Spotti e che ti RabelliScudiero! Dàgli due ettolitri di Brambilla!”

“No!! Non Morpurgo con quella roba!”

Ma ormai il sedativo era già stato spruzzato con una lunga canna sulla bestia, che si ammansì, e vomitò tutti i coristi. Questi, all’inizio un po’ spaesati, si misero poi a cantare come veri Magistrelli, emettendo un bell’accordo in La maggiore, dolce come il Mele, che si diffuse nell’aria Rossarola del tramonto.

Il Drago ne restò incantato…

“Vedi? – disse Biblo – non c’è bisogno che ci si Cavazzini gli occhi, se si Modena un po’ il tono! Dato che ti è piaciuto quel suono, ti cambierai il nome: non più Polifemico. Ma Polifonico. E la tua Pelletta, ormai sgonfia, ma resistente, servirà per lo stendardo del nuovo coro del Castello. Ma ora… dov’è la mia Teka??”

Carina, leggera, con un abito tutto ornato di un’argentea Cicolella di Parigi, avanzò Teka seduta su un Bertario portato a braccia da quattro Filippini e preceduto da due Naldi giovani tenori del coro. E Biblo la accolse, con un Garofalo bianco in una mano e nell’altra una preziosa scatoletta contenente due splendidi anelli.

“Oh, mia adorata, ecco il fiore della tua liberazione, ed ecco, per Tamanini deliziose, l’anello d’oro del nostro amore e l’anello di diamanti della nostra eterna fedeltà!“

Come fosse Renato ad una nuova vita, cantò il coro le dolci note :

“Mon coeur se recomande à vous…“ e “Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum, ita anima mea desiderat ad te, Teka/Biblo “ (due voci)

Poi fu festa grande. “La cena è Servida!!” E tutti a mangiare e bere il Bendidio della Carrera, mentre alcuni Borsari, Cavaglieri e scudieri con la Pelletta del fu Drago costruivano il grande stendardo che oggi, come trent’anni fa, vedete ancora sventolare in cima alla torre, con la scritta “CORO POLIFONICO DELLA BIBLIOTEKA DI SEGRATE”.

PS:
Il borsaro Moro, decorato dal fondo della giacca fino alla Gorla con Callane e Fondrini, e con dorati distintivi Albertini, rimase il depositario ufficiale di tutte le chiavi del Castello, da quelle di violino e di basso, a quelle del complicato congegno che muoveva le ruote: non si sa mai dovessero esserci altri traslochi in futuro…
Ma, per Mercurio! Vedrete che non ce ne saranno, o che, comunque, non creeranno alcun problema!